Autore Topic: Le differenze tra lavoro pubblico e privato  (Letto 348 volte)

BrunoAlessandroBertini

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Le differenze tra lavoro pubblico e privato
« il: Novembre 21, 2022, 10:35:30 am »
L’inconciliabile mondo del lavoro pubblico e del lavoro privato.

L’incapacità dei nostri politici si manifesta su questi temi:
1) Trattano ogni argomento come se il modello Statale fosse il migliore possibile e quindi obbligano gli imprenditori privati e gli artigiani a seguire quel modello anche nei minimi dettagli.
2) Siccome si è imposta la cultura del profitto e della efficienza a tutti i costi piegano e subordinano le regole del lavoro “statale” a questi obiettivi che in realtà non sono compatibili.

Per fare un esempio è come obbligare tutti a comprarsi una Ferrari perché sulla carta è indubbiamente l’auto più veloce e poi costringere chi ce l’ha a montare il motore di un trattore perché è il più affidabile.

Una idiozia totale.

I nostri cari politici dovrebbero tenere ben presente che esiste un mondo del lavoro “pubblico” che deve essere gestito direttamente dallo Stato senza finalità di lucro ma per garantire al meglio i servizi essenziali al cittadino.
Questo tipo di lavoro ha regole nettamente diverse da quello imprenditoriale privato.
1) Non persegue il lucro o l’arricchimento personale ma l’erogazione del miglior servizio possibile al cittadino.
2) Può accedere al finanziamento statale in deficit e quindi è un lavoro stabile e sicuro.
3) Ha una normativa molto severa per evitare che i soldi pubblici siano usati per arricchimento personale (chi vuole arricchirsi dovrebbe lanciarsi in una impresa privata). Questo significa un tetto agli stipendi e appalti controllati sulle forniture, controlli in fase di realizzazione e collaudi anche anti-economici.

Questo tipo di lavoro non può essere affidato a privati ma deve restare in mano totalmente pubblica.

Questo modo di lavorare non è il più performante se si misura l’efficienza sotto il profilo di redditività economica e di norma necessita di un finanziamento pubblico che rispetti il principio di redistribuzione della ricchezza.

Ovviamente lo stesso lavoro svolto da un privato avrà caratteristiche diverse, sarà migliore sotto molti punti di vista, primo tra tutti permetterà un profitto all’imprenditore e stipendi più alti ai dipendenti.
La diretta conseguenza sarà che una ditta privata avrà possibilità di assumere i tecnici mediamente migliori rispetto a quelli pubblici, disporrà di più soldi e potrà offrire un lavoro migliore a chi potrà pagarlo al giusto prezzo.
Ma è giusto così.
Immaginiamo un mondo in cui le aziende pubbliche offrono il miglior servizio in assoluto: si tradurrebbe nella totale sconfitta dell’imprenditoria privata, che invece ha senso proprio perché può creare eccellenze decisamente migliori di quelle ottenibili da una azienda statale.
Eccellenze che devono essere premiate da un profitto privato che nel lavoro pubblico non può esistere.

Il mondo del lavoro pubblico e privato condividono solo un quadro sommario di leggi che giustamente pongono limiti per garantire la sicurezza, la salute, i diritti e qualche standard tecnico.
Poi si dividono nettamente.

Il lavoro pubblico si finalizza sul bene comune, definendo nei dettagli regole utili a garantire che la ricchezza prodotta sia condivisa da tutti i cittadini.

Il lavoro privato persegue il profitto, per l’imprenditore/artigiano e chi gli commissiona il lavoro, con l’obiettivo di concentrare la ricchezza in mano ai più capaci e meritevoli (con una giusta moderazione del sistema fiscale).

Lo Stato dovrebbe scrivere le leggi quadro, uguali per tutti, e poi dedicarsi alla gestione del comparto pubblico con l’obiettivo del bene comune, di dare a tutti una vita degna e non certo ricchezze da favola.
Lasciare quindi campo libero all’imprenditoria privata che si interesserà dei settori più profittevoli creando un altro tipo di ricchezza, magari per pochi, ma comunque utile al sistema paese.

Lo Stato oggi ha fuso assieme il settore pubblico e quello privato, affidando formalmente al privato qualsiasi attività ma subordinandolo alle regole del lavoro pubblico.
Regole che per loro natura non permettono alcun profitto, a meno di non sacrificare il bene comune.
Paradossalmente è lo stesso stato a spingere le imprese verso il profitto, considerandolo l’indicatore di un buon funzionamento a discapito dei cittadini.

Il risultato sono una serie di:
- aziende che non producono profitto, perché cercano di fornire servizi alla comunità, affossate e penalizzate dallo Stato come aziende che non funzionano, obiettivo di tagli e restrizioni.
- aziende che potrebbero produrre profitto ma sono penalizzate da una burocrazia impossibile e un sistema fiscale impietoso.
- aziende (soprattutto estere) capaci di eludere la burocrazia e il fisco e che perseguono solo il massimo profitto, incomprensibilmente giudicate meritevoli da uno Stato che ha perso ogni contatto col la realtà economica del paese.